Opificio Lamantini Anonimi
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27 ago 2025

Oceani di dati inutilizzati nelle aziende

Raccogliere dati non basta: cosa farne davvero?

"Non è la quantità di dati a fare la differenza, ma la capacità di trasformarli in decisioni."

"## C’è un oceano sotto la scrivania

Centinaia di file Excel dormono pacificamente nei meandri dei server aziendali. Cruscotti interattivi pieni di grafici che nessuno apre. Report di vendita stampati e dimenticati, che servono più come tappetini per il mouse che come bussola per il business.
Benvenuti nell’oceano dei dati inutilizzati. Un mare vastissimo, spesso silenzioso, sempre sottovalutato.

La raccolta dei dati è diventata una pratica comune per le aziende, grandi o piccole che siano. Tutti vogliono “fare data-driven”. Eppure, il paradosso è dietro l’angolo: siamo sommersi di informazioni, ma poveri di conoscenza utile.

Dati sì, ma per cosa?

“Dobbiamo raccogliere i dati.”
Ok, ma per fare cosa?

Se non sappiamo rispondere a questa domanda, il rischio è costruire castelli di sabbia in formato .csv. Perché raccogliere dati non è un fine: è un mezzo. E come tutti i mezzi, serve una destinazione.

La verità è che in molte realtà aziendali i dati vengono raccolti per inerzia. Perché si può. Perché c’è un CRM che lo fa in automatico. Perché “così un giorno ci serviranno”.
Ma se nessuno li legge, li interpreta, li mette in discussione, quei dati sono come le conchiglie sulla battigia: graziose, ma inutili per la navigazione.

I motivi del naufragio

Perché succede tutto questo? Perché i dati si accumulano come alghe nel fondo del mare e non vengono mai riportati a galla?

Ecco alcune delle correnti contrarie più comuni:

  • Mancanza di strategia: raccogliere tutto “a prescindere” è come mettere ogni oggetto di casa in valigia per un viaggio: non ha senso se non sai dove stai andando.
  • Strumenti poco integrati: CRM, piattaforme di analytics, tool di automazione che non si parlano tra loro sono il corrispettivo aziendale delle torri d’avorio.
  • Overload informativo: troppi dati generano paralisi. Si guarda tutto, ma non si capisce niente.
  • Assenza di cultura del dato: se il dato è percepito come “cosa da tecnici” e non come parte della cultura aziendale, sarà sempre un’appendice e mai un motore.

Valorizzare i dati: un gesto radicale

Usare bene i dati non significa diventare tutti analisti. Significa cambiare modo di guardare il mondo.
È un atto radicale perché impone di scegliere. Di non accontentarsi del “abbiamo tutto” ma chiedersi: “di cosa abbiamo davvero bisogno per decidere meglio?”

Ecco alcune direzioni possibili per iniziare a navigare davvero nei propri oceani:

Meno dati, più domande

Prima di raccogliere, bisogna chiedersi: che domanda voglio farmi? Che decisione voglio supportare?
Le aziende che usano bene i dati non sono quelle che hanno più numeri, ma quelle che sanno farsi le domande giuste.

Pulizia e manutenzione

Un database senza manutenzione è come una cantina piena di scatoloni chiusi da dieci anni: ci sarà pure qualcosa di utile, ma chi ha voglia di scavare?
Serve un processo continuo di pulizia, aggiornamento e cura. Un po’ come per i bonsai: pochi rami, ben curati.

Traduzione umana

I dati non parlano da soli. Hanno bisogno di interpreti. Persone in grado di leggerli e raccontarli in modo comprensibile.
Dashboard intuitive, narrazioni visive, storytelling dei numeri: tutto ciò che trasforma la complessità in decisione consapevole.

Coinvolgimento diffuso

La cultura del dato non è una prerogativa del reparto IT o marketing. È un mindset che deve diffondersi in tutta l’organizzazione.
Chi si occupa di prodotto, chi gestisce clienti, chi risponde al telefono: tutti devono capire il senso di ciò che viene tracciato.

Esempi virtuosi

Ci sono aziende che hanno fatto della valorizzazione dei dati un asset strategico. No, non solo i colossi della Silicon Valley. Anche realtà più piccole, che hanno capito una cosa: i dati non servono a sapere, servono a decidere.

Pensiamo a una startup che, invece di misurare tutto, ha deciso di tracciare solo tre KPI essenziali legati alla retention degli utenti. Grazie a questa scelta ha potuto iterare rapidamente sulle funzionalità realmente utili e ridurre il churn del 30% in 6 mesi.

Oppure a un’azienda manifatturiera che ha semplificato il proprio cruscotto direzionale da 12 indicatori a 5, collegandoli direttamente agli obiettivi strategici. Risultato? Riunioni più brevi, decisioni più rapide, meno tempo perso a interpretare grafici incomprensibili.

E se i dati parlassero davvero?

Immaginiamo un futuro (non troppo lontano) in cui i dati non solo vengono raccolti, ma sono in grado di “auto-narrare” la propria utilità.
Report dinamici che raccontano trend in linguaggio naturale. AI che suggerisce scenari e simulazioni.
Ma anche in questo scenario iper-tecnologico, il nodo centrale resta uno: a cosa ci servono davvero quei dati?

Senza questa consapevolezza, anche la più avanzata intelligenza artificiale diventa solo un’altra onda nell’oceano dell’inutilità.

L’oceano diventa rotta

Valorizzare i dati significa dare loro un senso, una direzione, uno scopo.
È un lavoro artigianale, fatto di scelta, ascolto, interpretazione.
È una forma di cura, verso le decisioni aziendali, verso i clienti, verso il futuro stesso dell’organizzazione.

Non servono più strumenti. Serve più consapevolezza.
Non servono altri numeri. Serve un punto di vista.
E forse, serve anche un pizzico di poesia nei grafici."

Che sia un’idea, una curiosità, una sfida da affrontare, per noi non è mai “solo un contatto”.

È l’inizio di una conversazione, magari davanti a un caffè, reale o virtuale che sia.

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Promesso: niente automatismi, solo lamantini veri (con tastiera e cervello ben accesi).